Amatissima di Toni Morrison: la prosa ruvida racconta la schiavitù

Per rappresentare la schiavitù come un’esperienza personale occorreva togliere di mezzo il linguaggio.

Prima c’è stato l’audiolibro. La voce invitante di Maria Paiato e la sua capacità di modularla rendevano i personaggi nitidi; tanto che, quando ho sentito il desiderio fortissimo di passare al cartaceo, ho continuato a immaginare la voce rauca di una delle protagoniste come quella di Paiato, ché è graffiata e calda.

Dall’audiolibro alla copia cartacea

Ero rimasta colpita dalla capacità dell’autrice di evocare immagini assolate con la prosa ruvida di chi ha bisogno di non essere gentile col lettore per parlare di schiavitù.

Volevo che il lettore fosse rapito, scaraventato brutalmente in un ambiente estraneo […].

Sono sincera: riservo all’ascolto dei contenuti audio ad attività noiose e non credo di essere l’unica, quindi ricordo perfettamente che, mentre lavavo i piatti, mi è apparsa la casa in cui è ambientato il romanzo, le due donne che ci abitano, lo spirito maligno di cui si è sparsa la diceria per tutto il paese e l’uomo che le ritrova dopo tanto tempo. Da questo punto di vista, Amatissima mi ha un po’ ricordato alcuni aspetti del realismo magico sudamericano, perché le voci dei defunti vengono percepite da alcuni personaggi come un monito potente e la protagonista è «sospesa tra la malvagità della vita e la cattiveria dei morti». L’ascolto era così coinvolgente che ho preso l’edizione cartacea (Pickwick), sempre nella traduzione di Giuseppe Natale.

La memoria della schiavitù negli Stati Uniti

[…] speravo che lo sforzo erculeo di dimenticare fosse minacciato da una memoria che lottava disperatamente per restare viva, scrive Morrison nella prefazione, infatti, poiché il romanzo racconta le vicende di un gruppo di persone nere che a un certo punto fuggono dalla casa che li ha ospitati per anni.

L’autrice trova il modo e il ritmo giusto per ritrarre i personaggi, indagarne le ragioni e approfondire la loro storia, così che vediamo in primo piano le protagoniste femminili del romanzo e poi la vista abbraccia anche altri personaggi che popolano l’affresco; riusciamo a essere partecipi dei ragionamenti di chi non ha mai conosciuto la libertà, abituandosi ad amare il meno possibile, perché la prosa essenziale di Morrison è un tessuto fatto delle ingiustizie che subiscono i personaggi, ma anche dall’eredità che una ferita simile ha lasciato in un popolo, sulla pelle e nel modo di approcciarsi al mondo; non manca di menzionare le leggi che proibivano agli schiavi di sposarsi e altre barbariche consuetudini che contribuivano a tenerli in una condizione di sottomissione, facendo crescere una giungla dentro di loro.

La copertina di “Amatissima”

Lo spunto per la trama di Amatissima è una storia vera

Sempre nella prefazione al romanzo, Morrison racconta di come una riflessione sul tempo libero conquistato in seguito a un part-time, era un’editor (anche di Angela Davis, ricordiamo), si sia trasformata presto in un’esigenza di raccontare cosa una donna fu disposta a fare pur di non rinunciare alla propria libertà.

Non dirò molto della trama, ché non ne sapevo quasi niente e ogni pagina è stata una sorpresa soddisfacente: mi interessa di più approfondire in che modo Morrison sia riuscita a dare vita a un romanzo interessante dal punto di vista della scrittura.

La scrittura densa e gli espedienti narrativi

Amatissima non è un libro in cui le vicende vengono narrate rispettando l’ordine cronologico: alcuni aspetti della vicenda compaiono prima, altri, anche importanti, vengono proposti al lettore in un secondo momento, nel frattempo si sono creati aspettative, pathos e curiosità nella persona che legge; questo espediente inoltre consente a Morrison di approfondire le parti che indagano il punto di vista di tutti i personaggi che ritiene di porre alla nostra attenzione e di rivelare solo in quel momento altri particolari che colmano i vuoti della storia e colorano i personaggi, motivando le loro azioni.

Narratore onnisciente, focalizzazione interna e punteggiatura

Per tutto il romanzo ci accompagna la voce di un narratore onnisciente, mentre in alcune parti l’autrice decide dare voce al singolo personaggio, usando diversamente anche la punteggiatura. Il primo romanzo in cui ho potuto osservare questo espediente è La pietra lunare di Landolfi, in cui la protagonista, un personaggio che l’autore lascia percepire come un po’ sui generis, parla a ruota libera senza punteggiatura; così ho cominciato ad accostare una vena di follia ai personaggi che si esprimono con questa mancanza di punteggiatura e anche in Morrison ho ritrovato le stesse sensazioni.

[…] in casa non c’era vestito che non le stesse floscio addosso.

La differenza fra una prosa grezza e una che punta a lasciare che chi legge tragga le sue conclusioni e che sappia mostrare i personaggi è proprio questa: nell’una avremmo ritrovato semplicemente “era dimagrita”, nella seconda l’immagine evocata è più potente e ci fa domandare il perché di quel particolare, invitandoci così a proseguire nella lettura, che dopo la metà del romanzo ci riserva i risvolti determinanti di un rapporto madre-figlia segnato dalla morbosità e dalla volontà di possesso.

L’edizione Pickwick comprende la prefazione dell’autrice, la postfazione di Franca Cavagnoli e uno scritto di Alessandro Portelli, che soddisfano chi abbia voglia di leggere pagine critiche soddisfacenti su un libro molteplice.

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